24 Gennaio 2017


Inaugurazione anno accademico Universitas Mercatorum

Ancorchè i termini del rapporto tra il giudice e l'economia siano stati trattati a più riprese nel corso degli anni, è innegabile che alcune questioni si rivelano ancora aperte e, anzi, talune contraddizioni, che affondano le radici nell’irrisolto rapporto tra diritto e grandezze economiche, si fanno sempre più stridenti.

Nell’affrontare i molteplici temi che confluiscono nel binomio diritto-economia e nel rapporto tra giurisdizione e sistema economico, occorre ricordare che il problema non è strettamente riservato agli addetti ai lavori; né si tratta di argomenti che riguardano unicamente i magistrati della sezione fallimentare o assegnati al tribunale delle imprese o i pochi avvocati specialisti di settore. Il profilo di indagine si caratterizza, invece, per una vastità di implicazioni rilevanti a livello macroeconomico e per gli effetti percepibili dai singoli consociati.

Proprio attraverso le maglie del rapporto tra economia e diritto, i Paesi dell’area mediterranea - e tra questi l’Italia non sempre in modo giustificato – sono stati chiamati a sedere sul banco degli imputati nella dimensione continentale e sovranazionale di determinazione delle politiche pubbliche.

È diffusa come vulgata l’affermazione per cui l'economia italiana non cresce - o cresce meno degli altri ordinamenti statali europei - perché la giustizia si rivela lenta ed inefficace. Un diritto certo, una legislazione ordinata, un efficiente sistema giurisdizionale, un’offerta giudiziaria tempestiva e prevedibile, permette a ciascun Paese di esprimere le proprie potenzialità di sviluppo economico e civile. Al contrario, discipline di settore incerte, friabili, una funzione giurisdizionale che sconti problemi di efficacia, tempestività e di impronosticabili difformità negli orientamenti giurisprudenziali, sono elementi che rappresentano un freno per la crescita economica.

Eppure, solamente nell’ultimo quinquennio, il tema della giustizia, in particolare quella civile, costituisce uno dei principali parametri utilizzati dall'Unione Europea e da altri organismi internazionali per valutare il grado di affidabilità di un Paese per le decisioni di investimento e quale spinta della domanda aggregata.

Il complesso rapporto tra giustizia ed economia è, come è noto, un tema non nuovo.

Tra i primi a porre il tema del rapporto tra diritto ed economia, vi fu il padre del liberismo Adam Smith nel celebre studio "La ricchezza delle Nazioni". Una delle sue celebri frasi è rivelatrice: "ciascun individuo finché non viola le leggi della giustizia è lasciato perfettamente libero di perseguire il proprio interesse nel modo che vuole". E’ evidente nelle parole di Smith il senso dell’impostazione liberistica del rapporto tra autorità e libertà, del diritto soggettivo come categoria giuridica che determina la sfera economica.

Il concetto marxiano di diritto inteso come sovrastruttura riporta alla mente una frase del celebre filosofo di Trier; affermava Karl Marx: "il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari della classe borghese". Egli teorizzava, dunque, la prevalenza dell'economia sul diritto, un diritto asservito alla logica dell’economia come espressione di una classe dominante in una precisa fase storica.

E’ noto che la libertà di iniziativa economica, cristallizzata nell’articolo 41 della Costituzione repubblicana, ha tuttavia trovato una disciplina distante da entrambe tali concezioni.

L’ordito costituzionale si pone alla giusta distanza dalle due posizioni estreme: non abbraccia la concezione iperliberista in base alla quale ciascuno, nel contesto di mercato, ha facoltà di compiere quanto desidera purché non violi le regole; rifugge cioè dalla famosa affermazione per cui è lecito, valido e legittimo, tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge. Tuttavia, l’impianto dell’articolo 41 della Costituzione non ammette neanche che la libertà di iniziativa economica sia intesa come un diritto funzionalizzato ad interessi superiori individuati da una certa autorità pubblica.

Un grande economista contemporaneo, tragicamente scomparso, al quale mi sento legato per affinità culturali oltre che per comune provenienza territoriale, Federico Caffè, arrivò a dire che “l'incontro intellettuale tra giurista ed economista mi sembra realmente difficile”, anche se questo, aggiunse, “non significa che non debba avvenire”.

Dunque, quello tra gli uni e gli altri studiosi è un abbraccio che deve avvenire e che non è impossibile.

Nel dialogo, ormai quotidiano, che attraversa molteplici settori dell'ordinamento e della giurisdizione, si può muovere anche verso soluzioni concrete. Ciò a condizione di assumere che il rapporto trilaterale tra diritto, economia e funzione giurisdizionale debba confluire verso un altro trinomio, quello che lega la certezza, la tempestività e la prevedibilità quali componenti rilevanti dell'effettività del diritto.

Il Professor Natalino Irti, in un recente convegno tenutosi all'Accademia dei Lincei, al quale ho avuto il piacere di partecipare, ha rilanciato il tema della "calcolabilità giuridica"; la capacità, cioè, di poter prevedere gli esiti delle controversie. L'incertezza delle decisioni, infatti, è il terreno di conflitto più aspro e stridente nel rapporto tra economia e diritto.

Il fattore tempo non può essere valutato unicamente come la necessità di concludere un processo in tempi ragionevoli, il che, peraltro, è imposto dalla Carta costituzionale nel precetto di cui all'art. 111. Tale fattore deve essere considerato anche come un elemento che determina le decisioni di investimento e scandisce la vita delle imprese: la prevedibilità temporale della riposta ad un contenzioso o della decisione circa un'accusa penale permettono all’investitore di compiere scelte razionali; viceversa, se il fattore tempo é avvolto nell'incertezza, probabilmente l’imprenditore desisterà dall'operazione economica e dai propositi di sviluppo dell’impresa stessa.

Quindi, non è rilevante soltanto se un processo dura un certo numero di anni. E’ cruciale poter prevedere un inizio ed una

conclusione e poter fare affidamento sul rispetto di un minimo di certezza e prevedibilità: questa é l'essenza della sfida. Si tratta di un valore solo apparentemente impalpabile ed astratto, se è vero che il presidente dell’associazione italiana dei costituzionalisti, Massimo Luciani, ha affermato che la certezza dei rapporti giuridici è alla base del concetto stesso di Costituzione, è un valore implicitamente contenuto nelle Carte fondamentali, storicamente nate proprio come protezione garantista contro gli atti arbitrari e imprevedibili.

L’obiettivo, tuttavia, si rivela tanto più impegnativo se si considera che in Italia il passaggio dalla legalità tradizionale alla legalità costituzionale è stato lento e sofferto e non di rado si è risolto semplicemente nell’indebolimento della funzione della legge e dell'ordinamento nel suo complesso: il legislatore non riesce ad assicurare la prevedibilità delle conseguenze giuridiche di fronte a fatti immersi, ormai, in una complessità diversa e più articolata rispetto alla fase di dominio degli ordinamenti liberali sorti prima dell’avvento delle Costituzioni rigide e pluriclasse, ovvero da Weimar in poi.

E se gli ordinamenti statuali hanno difficoltà ad imbrigliare nella fattispecie astratta il divenire, non riuscendo a prevedere con la regolazione giuridica ciò che la stessa è chiamata a regolare per il futuro, il rapporto tra ordinamento, norma, giurisdizione e attività interpretativa è destinato a fondarsi su basi nuove.

E’ proprio questa la radice dell’immensa letteratura giuridica sulla crisi che, infatti, segna il suo sviluppo fondamentale dal celebre saggio di Santi Romano, dal titolo eloquente: lo “Stato moderno e la sua crisi”.

Vi si registrava, tra l’altro, la ridotta capacità della sola legge dei Parlamenti liberali di regolare in astratto i fatti della vita e si denunciava l’inadeguatezza del normativismo come schema logico esclusivo per fronteggiare la complessità di fenomeni sociali profondi e segno di repentino sviluppo.

Inevitabile che, a fronte di questo dato, si ampliasse la funzione della giurisdizione e ciò esattamente in corrispondenza di quel restringimento di campo per la legislazione classica, agli inizi; poi, in modo crescente e più che proporzionale, per effetto dello sviluppo in chiave multilivello della stessa attività normativa.

Al contempo ricade sulla magistratura, sulla giurisdizione, sulla giustizia, una responsabilità crescente. Non è, dunque, il protagonismo della magistratura o una qualche volontà invasiva a sviluppare i frangenti di supplenza; ma è la realtà che impone all’ordine giudiziario nuovi ed estesi settori di attività, quasi senza confini determinati.

Lo stesso rapporto tra la giustizia, la scienza e la tecnica subisce una costante evoluzione e momenti di autentica torsione. La relazione tradizionale tra la decisione giudiziaria e l'acquisizione delle cognizioni tecniche, attraverso consulenti ed ausiliari, è radicalmente mutata. L'evoluzione della scienza e dei saperi tecnici è tale da rendere necessario annettere al processo decisionale cognizioni lontane dalla cultura giuridica.

Ciò accresce ulteriormente, anche sotto altro e diverso profilo, la responsabilità del giudice e la complessità dell'esercizio della funzione giurisdizionale: nell'intreccio tra le evoluzioni scientifiche, le innovazioni tecnologiche e la formazione della prova, il peso e la natura della decisione trasformano il ruolo del giudice.

All'interno di questa cornice si pone il tema delle cosiddette "conseguenze" delle decisioni; un concetto, anzi un problema, che non può semplicemente ridursi alla dicotomia per cui il giudice sarebbe chiamato a scegliere tra ciò che è giusto e ciò che é utile. Posto in tali termini, il tema è fuorviante per due ragioni: in primo luogo, perché si confonde con il concetto e con i riflessi dell’equità; in secondo luogo perché sarebbe impossibile comprendere cosa debba intendersi per utilità quale tremolante stella polare rispetto alla giustizia.

E’ il caso di ricordare, a tale proposito, le parole che il Presidente Mattarella pronunciò nel corso dell'inaugurazione dell’Anno Accademico dei corsi di formazione della Scuola Superiore della Magistratura del 2016, un’analisi che esprime in modo efficace il tema delle conseguenze derivanti dalle decisioni giudiziarie: “I provvedimenti adottati dalla magistratura incidono, oltre che sulle persone, sulla realtà sociale e spesso intervengono in situazioni complesse e a volte drammatiche, in cui la decisione giudiziaria è l'ultima opportunità, a volte dopo inadempienze o negligenze di altre autorità".

Appare chiaro il riferimento alla responsabilità del legislatore e dei governi nel fornire risposte ai lancinanti problemi del presente.

“Per questo l'intervento della magistratura non è mai privo di conseguenze. La valutazione delle conseguenze del proprio agire non può essere intesa in alcun modo come un freno o un limite all'azione giudiziaria rispetto alla complessità delle circostanze”.

“E' comunque, compito del magistrato scegliere in base alla propria capacità professionale, fra le varie opzioni consentite, quella che, con ragionevolezza, nella corretta applicazione della norma, comporta minori sacrifici per i valori, i diritti e gli interessi coinvolti”.

Questo è il cuore pulsante del problema, la scelta tra più opzioni e l’utilizzo del criterio della ragionevolezza.

Aggiungeva il Presidente Mattarella che "La ragionevolezza non è soltanto un canone costituzionale che deve improntare l'azione del legislatore, ma è anche un parametro che deve guidare il giudice a operare il bilanciamento spesso richiesto dai diversi valori tutelati dalla Costituzione.

La nostra magistratura" e non posso che condividere queste affermazioni "in tante circostanze, ha dimostrato di avere tutti gli strumenti per garantire il riconoscimento dei diritti, senza condizionamenti. E' un bene che sia sempre più consapevole della sua funzione insostituibile, ma anche della grande responsabilità che grava sulle sue scelte”.

È arduo compendiare più efficacemente il problema che si staglia di fronte al giudice investito della decisione e finanche al requirente chiamato a provvedere con una misura preventiva reale.

Non credo che per la magistratura, per l'avvocatura e per le imprese sia difficile riconoscere che il confronto può oggi svolgersi su tale compiuta base di riflessione.

I terreni su cui si manifestano i frequenti conflitti tra effetti del giudizio penale e civile e interessi delle imprese sono molteplici.

Il problema delle misure cautelari reali rappresenta un tema rilevante, come lo è il bilanciamento tra i valori dell’ambiente e del mercato nonché la dialettica tra le imprese, i risparmiatori e i mercati finanziari; si pensi, ad esempio, alla questione che attiene alla gestione dei crediti deteriorati.

E’ riduttivo riferirsi alla capacità di rendere efficiente un settore del sistema giustizia che garantisce a sua volta l'efficienza di un ambito della vita come l'ambiente o la finanza; la crisi del nostro contesto finanziario rischia di minare la tenuta dell'intero sistema economico italiano, di vanificare gran parte degli sforzi compiuti in questi anni per il risanamento, il recupero di affidabilità e credibilità a livello europeo ed internazionale.

Nel sistema bancario la giustizia viene invocata, sia sul versante penale che su quello civile, con particolate riguardo all’ambito delle procedure concorsuali; ciò accade, evidentemente, per la percezione della possibilità di assicurare il recupero dei crediti.

Ma l’aspetto più rilevante sul quale si radica, direi quasi strutturalmente, il conflitto fra applicazione del diritto nel processo ed interessi economici è quello riconducibile al circolo vizioso che, da molti anni ormai, si è instaurato tra l'economia legale e quella illegale.

Ed è all'interno di tale strisciante conflitto tra le due sfere che si posizionano gli interventi della magistratura. Essi si diramano nelle più varie direzioni; l'interesse del Paese, oltre al recupero di certezza, prevedibilità e tempestività è quello di restringere lo spazio occupato dall’economia illegale e sommersa ed ampliare, al contrario, l'area dell'economia sana, legale; quella per la quale le volontà imprenditoriali possono dispiegarsi in sicurezza, nel rispetto delle regole e per consentire il pieno sviluppo delle capacità di ciascuno di intraprendere iniziative economiche. Quindi, lotta alla corruzione, alla criminalità organizzata, alla grande evasione fiscale, agli spazi di economia sommersa che affligge i più deboli e i loro diritti fondamentali.

Anche su questi temi circolano, come noto, cifre e numeri; ha avuto una certa eco la stima del costo della corruzione in 60 miliardi di euro; si tratta spesso di valutazioni che non hanno alcuna valenza scientifica o base di riscontro.

L'ISTAT, tuttavia, ha quantificato di recente il peso dell'economia sommersa in circa il 13% del nostro PIL a fronte di percentuali di crescita dello stesso Prodotto interno lordo stimate tutte intorno a più o meno dell’1%.

Il 13% di economia illegale (alimentato dalle più diversificate attività criminali) impoverisce il bilancio pubblico, deteriora i rapporti sociali, inquina i traffici economici, aumenta la forbice delle diseguaglianze

E’ evidente che se l'intero sistema avesse la capacità di concorrere a ridurre gradualmente della metà (anche dell’1% all'anno) il monte di economia illegale (il 13% significa circa 220 miliardi di euro), considerando che l’attuale pressione fiscale si colloca intorno al 43 e 44%, 100 miliardi di emersione significherebbero 43-44 miliardi in più per il bilancio dello Stato. Va ricordato che tutte le manovre finanziarie che ruotano intorno all’asse della legge di stabilità si aggirano intorno ai 20-30 miliardi.

Queste cifre lasciano intendere come la lotta alla criminalità economica costituisca la necessità per risolvere alcuni dei problemi storici del nostro Paese, assicurare ai giovani un futuro migliore in termini di formazione ed opportunità di lavoro, la possibilità di consentire, con risorse aggiuntive, lo svolgimento di diversi servizi fondamentali.

Negli ultimi dieci anni si è assistito all'estenuante dibattito sulla riduzione della spesa pubblica che ha determinato ingenti problemi in ogni settore: sanità, istruzione, giustizia, trasporti, infrastrutture, prestazioni sociali, pensioni. Per ciascuno di questi ambiti si sono effettuati tagli, manovre di riduzione dei costi e, conseguentemente, della qualità dei servizi e del livello dell’assistenza; la spesa per questi settori é sempre inferiore alla media degli altri Paesi dell’Unione Europea e, nonostante ciò, si è costretti a ridurla ulteriormente, mentre avremmo bisogno di aumentarla.

Tale paradosso è determinato da due elementi:1) debito pubblico e relativi oneri per interessi (benché l'onere per questi ultimi si sia drasticamente ridotto); 2) il peso dell’economia criminale e illegale. Ecco, quindi, che la lotta all'economia illegale si manifesta come una delle principali emergenze del Paese, una priorità per tutti, lo Stato e i cittadini, le imprese, le forze dell'ordine, la magistratura.

L’altro fronte che sta progressivamente mutando il rapporto tra giudice e imprese è quello del diritto della risoluzione delle crisi di impresa, un tempo, non a caso, qualificato come diritto fallimentare. Probabilmente è proprio questo il settore nel quale più di altri si sono registrate evoluzioni positive sia sul fronte della legislazione, sia su quello della giurisdizione.

Senza indugiare a lungo sul tema, vi è da sottolineare un mutamento paradigmatico della legislazione fallimentare e della funzione del giudice: le procedure concorsuali non sono più orientate a punire, ad espungere dal mercato, a sanzionare l'impresa; viceversa, i nuovi strumenti alternativi al fallimento sono finalizzati a tentare di salvaguardarne il valore, i livelli occupazionali che gli stessi soggetti imprenditoriali assicuravano in precedenza e, quindi, le buone ragioni dell'economia.

L’impulso del legislatore italiano, fino al più recente intervento normativo, è stato anche quello di adempiere a precise indicazioni provenienti dall'Unione, anche anticipandole almeno in certa misura; l’Italia si è infatti mossa prima che dispiegasse efficacia diretta la raccomandazione comunitaria del 2014.

Oggi, il giudice fallimentare, cosi come quello penale, non è più chiamato ad espellere dal mercato le imprese insolventi, così come avveniva con la legge del 1942; la magistratura, invece, è sovente chiamata a confrontarsi con la realtà imprenditoriale e con la possibilità di proseguire, salvaguardare e rilanciare l'attività degli attori del mercato.

La Corte di Cassazione è recentemente intervenuta sull’argomento distinguendo, a proposito del concordato in continuità - strumento principale per protrarre e proteggere la vita dell'impresa in crisi - tra fattibilità giuridica e fattibilità economica del piano concordatario; la Corte ha affermato che compito del giudice è di valutare la prima e non la seconda (fermo restando che il confine tra le due categorie non è sempre netto).

Ma è proprio tale dicotomia, nitida sotto il profilo giuridico, a porre notevoli interrogativi sul ruolo del giudice nella risoluzione delle crisi di impresa in funzione di risanamento e rilancio delle stesse. Valga, a titolo esemplificativo, l'autorizzazione del giudice sulla cosiddetta finanza interinale, cioè nel frangente in cui l'impresa in concordato abbia bisogno di nuova liquidità.

Finalmente il legislatore ha introdotto una preziosa norma che prevede la prededuzione di quei crediti rispetto agli altri crediti pregressi. Al giudice si chiede di autorizzare a contrarre un nuovo debito con l'istituto bancario per poter supportare il piano di impresa che fonda l'ipotesi concordataria. In una simile evenienza, al giudice non è chiesto di compiere un'operazione valutativa semplice; così come, in caso di richiesta di autorizzazione a proseguire l’esecuzione di contratti ed a risolverne degli altri, il giudice è chiamato a valutare se quei contratti siano essenziali o meno per il protrarsi dell’attività dell’impresa. E’ di chiara evidenza come si tratti di una funzione dai contorni nuovi che impone al giudice formazione e specializzazione, ma anche volontà di misurarsi con altre discipline, con il mondo dell'economia e della finanza. La magistratura si accosta all’esercizio delle funzioni di autorità di regolazione e ne condivide, indirettamente, obiettivi di sistema di larga portata.

In definitiva, quando si parla della relazione tra il giudice e l’economia, non si deve cedere al riflesso di alludere ad un rapporto di subordinazione del magistrato alle ragioni dell'economia: l’idea della soggezione non corrisponde al dato costituzionale.

Un'ultima considerazione riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura.

Il CSM è munito di poteri e persegue finalità previste dalla Costituzione, dalla legge istitutiva e dalle altri fonti, in primis quella regolamentare, che, nel tempo, ne hanno disciplinato l’attività e le prerogative.

L'esercizio delle funzioni consiliari deve evolvere tenendo conto della nuova realtà che ho tentato di delineare. Ciò non per subordinare la magistratura alle ragioni dell'economia e delle imprese, ma per esercitare con pienezza ed effettività le funzioni di un ordine diffuso soggetto soltanto alla legge (art. 101 Cost.).

Il Consiglio sta compiendo un lavoro straordinario; ha inaugurato una stagione nuova, non perché siano mutate la natura e le finalità dell'organo di governo autonomo, bensì perché le funzioni del giudice sono destinate ad adeguarsi ad un mutamento degli ordinamenti giuridici. Basta un cenno alla gestione dei procedimenti scaturenti dai flussi migratori e al problema dei minori non accompagnati.

I dirigenti e gli uffici giudiziari tutti non possono organizzarsi prescindendo da questi cambiamenti e dai nuovi imponenti fenomeni sociali.

Questa é la principale ragione della riforma del Testo Unico sulla Dirigenza giudiziaria, dell'introduzione dei nuovi criteri di selezione dei candidati, dello straordinario lavoro sulle buone prassi organizzative attraverso il censimento di circa 1500 pratiche virtuose con successiva selezione di 700 tra queste, da suggerire come paradigma virtuoso.

Questa è la ragione per la quale si è cercato di superare la diffidenza registrata, in avvio di consiliatura, nel rapporto tra il CSM e la Scuola Superiore; ciò al fine di indirizzare i corsi formativi e promuovere le attività in un’ottica congiunta e coerente su temi di grande attualità.

Si intravede, in questo riferimento, l'approccio nuovo del Consiglio alle riforme (alcune approvate e altre ancora in itinere): quella del processo penale, quella organica sulla giustizia civile, quella sulle procedure concorsuali, la quale ultima prevede, a titolo non meramente simbolico, l'espunzione dal nostro ordinamento della parola “fallimento”come emblema di un mutamento culturale,oltre che normativo.

Il nuovo paradigma nell’interpretare le funzioni consiliari investe anche le regole di funzionamento dell’istituto consiliare. Parlo della cosiddetta autoriforma del CSM che si è concretizzata soprattutto nelle riscrittura integrale del regolamento interno per conseguire efficienza e trasparenza nelle decisioni consiliari.

Trattasi di elementi che consentono di interpretare ed assicurare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura in una prospettiva oggi più che mai necessaria: passando attraverso il recupero di autorevolezza ed incisività della funzione magistratuale.

Una funzione giurisdizionale slegata dalla realtà, che non tenga conto delle aspettative che provengono dalla società, dall'economia, non può dirsi capace di assicurare i fondamentali principi dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici, dettati prima di tutto nell'interesse dei cittadini.

E’ dunque giusto e doveroso proseguire nella direzione del cambiamento.

Con queste considerazioni auguro buon anno accademico ai vostri studenti, a Voi docenti e a tutto l’Ateneo.

Vi ringrazio per l’attenzione.