18 Gennaio 2018


Intervento in occasione della sigla del Protocollo d'Intesa tra il CSM, il DAP e la Fondazione Nicola Irti per percorsi di studio delle persone detenute

Roma, Accademia dei Lincei

L’occasione della stipula di questo Protocollo trilaterale promosso dalla Fondazione Nicola Irti, cui hanno aderito il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Consiglio Superiore della Magistratura, è solenne sia per la sede in cui ha luogo la presentazione odierna, sia per le finalità che si propone l’atto stipulato tra noi poche settimane fa, sul finire del 2017.

Nel ricordo del giovane Nicola Irti, dalla particolare e profonda  sensibilità, il Protocollo intende calare nella vita quotidiana di chi è sottoposto alla pena penitenziaria, un afflato di cultura, di consapevolezza ed un particolare senso di humanitas.

Non sta a me dire se a Nicola Irti sarebbe piaciuta questa iniziativa forte e così densa di finalità nobili.

Ma so di alcune sue iniziative, di certa sua sensibilità marcata per i deboli e per coloro che vivono momenti in cui sono relegati nella marginalità.

Ciò che è certo è che in questa via intrapresa si avverte un confluire di sentimenti, un momento di comune slancio verso fini alti: innanzitutto, quello di “aumentare i residui di libertà” – per citare una celebre espressione della Corte costituzionale - che spettano a chi trascorre il tempo in carcere. Evitare che le vite siano da esso annichilite è, per noi che siamo qui, consolazione, ma anche ragione di arricchimento umano e di gioia personale.

E quel che è altrettanto sicuro, e questo per me e credo per tutti noi non è poco, è che il Professore Natalino Irti ha inteso attribuire a queste attività da svolgersi con i detenuti all’interno delle carceri, molteplici e profondi significati. Essi sono accompagnati da sentimenti e ricordi intimi e profondissimi e a una non comune sensibilità per le persone fragili, nella specie per chi vive la durezza quotidiana del carcere e si misura con la effettiva funzione rieducativa della pena.

Dunque, questo nostro protocollo si propone l’obiettivo di un arricchimento spirituale e umano diretto ad offrire ai detenuti percorsi di cultura generale e di formazione civile, volte a consentire loro di acquisire un ruolo nella società ma soprattutto a vivere esperienze di riflessione profonda, tra l’altro, proprio su quanto la Costituzione italiana porta con sé in materia di pene.

Parole di fondamentale pregnanza, quelle della Costituzione, elaborate in una stagione in apparenza lontana, ma il cui valore profondo merita di essere trasmesso, illustrato, propalato.

A maggior ragione se queste lezioni potranno mettere in condizione persone che stanno espiando la pena di comprendere in profondità la nostra cultura che è sempre stata di straordinaria suggestività in materia di trattamenti sanzionatori, di diritto penale, di scienza penitenziaria.

Non dobbiamo stancarci mai di notare con quanta sapienza, ad esempio, i Costituenti abbiano impiegato il plurale e il singolare non solo nel celebre articolo 27 della Costituzione, ma anche in tutte le disposizioni che riguardano e trattano i soggetti in condizioni di marginalità o di difficoltà.

Così, lo stesso articolo 27 parla al plurale di pene, ma impiega il singolare per dire che esse “devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Come si vede è un richiamo potente al fatto che il carcere non può essere l’unico modo per punire, ma che al centro di tutto deve esservi, di necessità, l’uomo e la sua dignità.

Ecco, quindi, il cuore caldo di questo Protocollo, le ragioni che hanno condotto alla sua ideazione e che ne connotano il senso profondo: una grande attenzione per la specificità e la singolarità di ogni singola esperienza umana. Quell’attenzione alla fragilità che era, poi, un lato del carattere della persona che portava il nome della Fondazione, parte di questo protocollo. E al cui ricordo vivo tanti detenuti, dopo questa esperienza che diverrà presto realtà, dovranno molto.

Il tema della cultura in carcere, d’altronde, è questione del massimo rilievo che ha visto in Italia grandi studiosi offrire un contributo straordinario.

Vale la pena citare Sandro Margara, Franco Bricola, ma anche Rocco Carbone, un indimenticabile letterato intellettuale che ha scritto del carcere comprendendone i più profondi reconditi mentali, al contempo illuminandone gli angoli: tutte persone che hanno saputo insegnare a studenti ed allievi come la cultura assuma un valore terapeutico unico e renda liberi.

E’ lo strumento più potente per scardinare la logica chiusa del carcere e il rischio che esso produca e moltiplichi marginalità e recidiva.

La funzione della cultura quale strumento per contrastare la solitudine e la sofferenza e per tentare di stabilire un ponte con la vita che verrà dopo il carcere, ha segnato le vicende umane drammatiche di grandi personalità che hanno scritto pagine straordinarie della storia post-risorgimentale e unitaria del nostro Paese.

Ne cito soltanto alcuni.

Francesco De Sanctis durante i tre anni di detenzione inflittigli per aver preso parte ai moti insurrezionali del 1848, scrisse pagine struggenti dal carcere: “talora... il mio pensiero esce dai ferri, e libero mi sento...”.

Bertrando Spaventa scriveva al fratello Silvio, altro patriota detenuto nelle carceri borboniche: “Fatti un gran quaderno di carta ordinaria e nota ogni giorno in esso ciò che ti viene in mente, specialmente di cose filosofiche. Così i tuoi pensieri ti faranno compagnia nel vero senso della parola”.

Antonio Gramsci, che forse più di tutti ha rappresentato la capacità della cultura di farsi forza interiore che scardina le barriere fisiche della reclusione, scrisse: “Ho letto sempre, o quasi... e mi stavo rifacendo una biblioteca. Qui ho stabilito questo programma: 1° stare bene per stare sempre meglio in salute; 2° studiare la lingua tedesca e russa con metodo e continuità; 3° studiare economia e storia”.

Sembra quasi un programma sulle condizioni della vita penitenziaria.

Questa straordinaria e fertile iniziativa, ricade in un periodo di incisive riforme dell’ordinamento penitenziario.

Dopo le pronunce della Corte EDU e della Corte Costituzionale del 2013, il messaggio del Presidente Napolitano alle Camere e i primi interventi legislativi dello stesso anno, si è avviata una cruciale stagione di riforme.

Con gli Stati Generali dell’Esecuzione penale, meritoriamente promossi dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando e seguiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, con una puntuale risoluzione di accompagnamento, ha preso le mosse una fase in cui si è abbandonata l’idea del soggetto ristretto nella sua libertà personale come “uomo a una dimensione”. Anche tra le mura di un carcere, di un vecchio e ormai abbandonato ospedale psichiatrico giudiziario, di una colonia agricola, di una casa di lavoro, si trova un uomo con tutte le sue complessità.

Questa lettura a tutto tondo delle persone immerse negli universi carcerari ha poi portato prima all’istituzione del Garante Nazionale per le persone ristrette nella libertà personale, poi all’approvazione della legge di delega n. 103 del 2017.

Eppure, anche lo scorso   quinquennio si è riproposta una delle caratteristiche della nostra legislazione in materia penale: si tratta di quell’oscillazione costante tra le spinte all’umanizzazione del trattamento sanzionatorio e le contrarie insistenze al pan-penalismo, all’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, non di rado dall’amaro sapore duramente retributivo. Pur immerso in queste persistenti contraddizioni, questo tempo di transizione tra le due legislature è segnato dal percorso di tre decreti delegati: su ordinamento penitenziario e salute in carcere; sul diritto penale minorile e, infine, sul sistema delle misure di sicurezza.

Attraverso la loro approvazione, può realizzarsi la mutazione profonda che l’ordinamento merita di  vivere, specie se al primo dei decreti delegati, già trasmesso al parere delle Commissioni parlamentari e del CSM, farà seguito l’auspicabile esercizio della delega anche sul fronte del trattamento penale dei minori e su quello delle misure di sicurezza per l’imputabile e il non imputabile.

Dunque, questo Protocollo, le attività che ne costituiranno il seguito, si inscrivono in una logica non difforme dall’approccio di totale ampliamento della concezione della vita, della salute e della condizione esistenziale in carcere. Il suo carico afflittivo non può risolversi nella rinuncia all’espansione della personalità umana grazie alla cultura, specie perché dalla Costituzione traspare l’idea che non si debba e non si possa rinunciare allo sviluppo e alla pienezza dell’esperienza umana, anche quando si vive circondati da mura che circoscrivono l’orizzonte dello sguardo e rispondono agli errori e alle contraddizioni di parabole umane segnate dall’accadimento delittuoso.

L’adesione del Consiglio a questa iniziativa non deve, dunque, ritenersi simbolica.

E’ piuttosto il suggello di un modo di vedere l’esecuzione penale in tempi difficili, ma gravidi di novità: e allora la totale  vicinanza ad un grande amico ferito dal dolore di una perdita gigantesca, si congiunge con la consapevolezza di quanto di giusto vi sia nel sostegno ideale, morale e culturale con progetti che aiutano chi è costretto a rimanere indietro per far fronte ad un torto inflitto ad altro o alla società e ai suoi beni.

Non è poca cosa, mentre si allargano gli spazi della giustizia riparativa, si punta su misure diverse dalla segregazione carceraria, si imprime una svolta al modo di intendere e di trascorrere gli spicchi di vita racchiusi nelle carceri.

Con videomessaggio ai detenuti-studenti del carcere di Ezeiza in Argentina, nell’agosto 2017, Papa Francesco ebbe a dire: “Quelli che sono in carcere stanno scontando una pena, una pena per un errore commesso. Ma non dimentichiamo che, affinché la pena sia feconda, deve avere un orizzonte di speranza, altrimenti resta rinchiusa in se stessa ed è soltanto uno strumento si tortura, non è feconda”. Ed ha continuato: “Pena con speranza, allora è feconda. Speranza di reinserimento sociale, e per questo, formazione sociale, guardando al futuro, e questo è quello che state facendo voi”.

Ed è anche seguendo questa bella esortazione del Papa, che cercheremo di contribuire nel modo migliore ad attuare i propositi di questo protocollo per il quale esprimo, a nome mio e dell’intero Consiglio Superiore della Magistratura, sentimenti di gratitudine profonda al Professor Natalino Irti, al Presidente Santi Consolo ed a tutti coloro che hanno sin qui collaborato alla sua stesura e che collaboreranno a conferirgli linfa vitale.