11 Giugno 2015


CSM, Legnini: sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati un confronto di livello elevato

Il discorso del Vice Presidente del CSM, Giovanni Legnini, in occasione del seminario di due giorni “La riforma della responsabilità civile dei magistrati” che si è svolto nelle giornate dell’11 e del 12 giugno con l’obiettivo di aprire una riflessione circa il rapporto tra la nuova disciplina, l’esercizio della giurisdizione e il ruolo del governo autonomo della magistratura.

Consentitemi innanzitutto di esprimere soddisfazione per l’iniziativa che ha condotto a questa occasione di studio e di confronto odierno, uno dei primi, e di livello tanto elevato data l’autorevolezza dei relatori, su una materia di notevole delicatezza e di portata sistematica per il ruolo del giudice nell’ordinamento. Ringrazio la Sesta Commissione e il suo Presidente Piergiorgio Morosini per aver assunto l’iniziativa e la particolare cura nell’organizzazione. Ringrazio altresì la Scuola Superiore della Magistratura per aver aderito e fornito supporto a queste due giornate di studio. 

Le due giornate di studio di oggi e domani si pongono ad una giusta distanza temporale dalle reazioni derivanti dalla approvazione della legge n. 18 del 2015 e consentono di riflettere, con un minimo di distacco e sulla scorta di dati e rilievi effettivi, circa il rapporto tra la nuova disciplina, l’esercizio della giurisdizione e il ruolo del governo autonomo della magistratura. 

E infatti, molteplici sono le implicazioni della riforma della responsabilità civile sull’esercizio delle funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura. È proprio su tali profili che mi soffermerò brevemente nel prosieguo di questo intervento, facilitato, peraltro, dall’analitico parere espresso dal Plenum sul testo del disegno di legge, quando ancora era in pieno svolgimento l’esame parlamentare che avrebbe condotto all’entrata in vigore della riforma della cosiddetta Legge Vassalli. Il testo del parere approvato dal Consiglio si è rilevato particolarmente fertile se è vero che esso, tra gli altri elementi segnalati, si soffermava sui rischi connessi all’introduzione di forme di responsabilità diretta. Si trattava di elementi normativi che pure avevano fatto capolino nell’ordinamento, in seguito alla reiterata approvazione di due emendamenti al disegno di legge europea per gli anni 2013 e 2014, peraltro in seguito al ricorso al voto segreto in sede parlamentare. È dunque auspicabile che l’istituto della responsabilità diretta, concettualmente estraneo alla cultura giuridica italiana, sia definitivamente uscito dagli orizzonti del dibattito parlamentare e dottrinale. 

Peraltro, il parere reso dal Consiglio si era accuratamente soffermato sugli altri due snodi critici che già venivano evidenziati prima dell’entrata in vigore delle nuove norme: l’eventualità che l’espunzione del filtro di ammissibilità si risolvesse in un profluvio di azioni risarcitorie capaci di paralizzare gli uffici giudiziari e di esondare sugli equilibri del sistema; il rischio, sul versante sostanziale, di incidere sull’attività di interpretazione del diritto e valutazione del fatto, gravata dalla responsabilità che potrebbe pendere sul capo del magistrato proteso a discostarsi ed innovare su indirizzi giurisprudenziali consolidati. Ebbene, per questi due ultimi profili occorre, ancora una volta, affidarci alla giurisprudenza ed alla sua capacità di ricondurre a sistema i nuovi istituti connessi con l’espansione della responsabilità degli appartenenti all’ordine giudiziario. 

D’altra parte, forse non occorre neanche rammentare che in questo caso, sulla giurisdizione, grava il compito di definire le linee interpretative di una disciplina che si muove su un confine delicato, lungo il quale, cioè, la ratio legis evolutiva deve convivere con la tenuta del sistema. Ciò affinché l’istituto del risarcimento non valichi i confini della finalità che gli è propria, magari per dare corso ad impieghi emulativi o persino per perseguire anomali e surrettizi fini dilatori nel processo. Da un lato, dunque, le soluzioni interpretative dovranno rimanere aderenti al dettato delle modifiche alla l. n. 117 del 1988; dall’altro, si dovrà garantire la costante e uniforme adesione ai principi costituzionali in punto di status e funzioni degli appartenenti all’ordine giudiziario. Solo preservando questi ultimi, si potrà difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura insieme con il sereno e libero esercizio della funzione giurisdizionale. 

Conviene in questa sede limitarsi solo ad esaminare le questioni più rilevanti e significative tra quelle da più parti evocate. I relatori chiamati ad intervenire nelle sessioni avranno modo di approfondire i rispettivi piani di possibile interferenza delle nuove norme rispetto all’attività ermeneutica e valutativa tipica della funzione giudiziaria. Al momento - e mi sento di confermare quanto ebbi modo di sostenere poche settimane fa, in occasione di un proficuo e stimolante incontro, svoltosi presso la Corte Suprema di Cassazione, dei cui esiti mi congratulo nuovamente con il Presidente Santacroce - sembra consentito esprimersi in termini di prudente ottimismo rispetto all’inverarsi di quei rischi per il sistema che erano stati prospettati evocando altresì incognite potenzialmente dirompenti. 

In primo luogo, da una sommaria verifica dei flussi di domande risarcitorie pervenute dopo l’abrogazione dell’istituto del “filtro risarcitorio”, si evince un quadro confortante. I ricorsi, dopo circa tre mesi dall’entrata in vigore della nuova disciplina, sono inferiori alla decina e dunque la temuta congestione degli uffici giudiziari per il moltiplicarsi degli impulsi al rimedio risarcitorio, per ora, non trova riscontro. Naturalmente, non sfugge la scarsa significatività del dato relativo alle prime settimane di vigenza della riforma, durante le quali, peraltro, il mondo dell’avvocatura è presumibile sia stato impegnato nello studio della portata della nuova disciplina. 

L’altro timore di fondo era riconducibile ai rischi di scalfire la posizione di autonomia e indipendenza del magistrato giudicante e quindi di innestare sospetti di incompatibilità ambientale o – talvolta non senza qualche confusione - di determinare un presupposto per lamentare il “legittimo sospetto”, in seguito alla proposizione dell’azione civile di risarcimento dei danni; tutto ciò sempre per la scomparsa dell’intermediazione del cosiddetto filtro di ammissibilità. Tali dubbi sono stati fugati, come noto, dalla sentenza della VI sezione della Cassazione penale, del 18 marzo 2015. 

Certo, queste prime e provvisorie considerazioni non valgono a sedare definitivamente i dibattiti, talvolta anche aspri, che hanno accompagnato alcuni dei punti nodali della disciplina recata dalla riforma. Li richiamo brevemente senza ambizione di esaustività, ma al fine precipuo di sollevare chi mi seguirà dal compito di stilare un lungo elenco dei dubbi applicativi e delle prospettive controverse sul piano interpretativo. Oltre alle perplessità manifestate da chi temeva che l’espunzione del filtro di ammissibilità aprisse il campo a pretese risarcitorie azzardate o, peggio, strumentali, si è lamentata l’eccessiva larghezza dei presupposti applicativi per l’azione di risarcimento connessa all’adozione delle misure cautelari personali e reali. Si è prospettato il rischio di rendere troppo vincolante e granitico, peraltro in modo surrettizio, il precedente giurisprudenziale, stante l’introduzione di possibili conseguenze risarcitorie sottese all’innovazione degli orientamenti nell’adozione della decisione: è il timore, cioè, di favorire un eccessivo conformismo nella definizione del processo; si è dubitato della sistematicità di una disciplina che discerne tra i presupposti soggettivi per attivare la responsabilità verso lo Stato e il fondamento per far valere la rivalsa nei confronti del magistrato da cui discende l’atto e il comportamento lesivo; infine, si è dibattuto a lungo sulla formula, ora certo più ampia e quindi maggiormente aperta all’accoglimento delle domande risarcitorie, che delinea le eccezioni al principio scriminante per cui: “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”. 

Ora, su tutte le questioni illustrate, come su quella più generale concernente l’eventualità di creare un metus turbativo in chi è chiamato ad amministrare la giustizia, non intendo soffermarmi. E ciò per tante e ovvie ragioni. Si tratta, comunque, di una valutazione per così dire complessiva della tenuta dell’impianto normativo da poco entrato in vigore e, soprattutto, della capacità dell’intero sistema di assorbirne e amalgamarne adattivamente le novità fondamentali le quali, certo, non mancano. 

Con riguardo all'azione di rivalsa, si chiarirà in modo esplicito ciò che il legislatore, forse, non ha disciplinato in modo nitido: ovvero l’elemento in base al quale l'azione risarcitoria del cittadino nei confronti dello Stato si fonda su presupposti più ampi, e comunque diversi, rispetto a quelli alla base dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato. A questo riguardo, sempre la giurisprudenza sarà decisiva per fugare i dubbi di lesione dell'indipendenza e della serenità del giudice, prevenendo ogni impiego strumentale dell'azione civile risarcitoria. Auspicabilmente, gli indirizzi giurisprudenziali potranno comporre e chiarire l’esatta applicazione dei differenti presupposti di responsabilità alla base del giudizio principale e in quello di rivalsa, senza che perda effettività il rimedio risarcitorio in mano al cittadino e garantendo, al contempo, certezza e omogeneità nel giudizio di accertamento della responsabilità civile. Come premesso, e ricordando che sono state già sollevate due questioni incidentali di costituzionalità su alcune disposizioni della l. n. 18 del 2015 e che esse investono i profili che ho illustrato in precedenza, ritengo opportuno soffermarmi sulla potenziale incidenza della riforma, sulle funzioni del governo autonomo; mi riferisco, seguendo fedelmente l’ultima parte dell’elenco recato dall’articolo 105 della Costituzione, ai provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati e ai presupposti giuridici per le promozioni, cioè il sistema delle valutazioni di professionalità. 

Sul versante del procedimento disciplinare, ritengo che il dettato legislativo rimanga chiaro ed inequivoco: l’autonomia tra illecito disciplinare e civile resta confermata dal combinato disposto degli artt. 6 e 9 della legge Vassalli, nel testo modificato di recente. L’assenza di ombre di interdipendenza automatica o pregiudizialità tra i due piani processuali è poi confermata dall’immutata disciplina prevista dal d. lgs. n. 109 del 2006. Ritengo poi che la riserva di legge rinforzata prevista dallo stesso articolo 105 della Costituzione rinsaldi questo convincimento, giacchè per modificare e innovare i principi e il procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari, il legislatore avrebbe dovuto porre mano direttamente alle norme dell’ordinamento giudiziario e non ricorrere ad eventuali modifiche implicite o surrettizie per il tramite della novella al profilo di responsabilità disciplinare. E credo di poter affermare, tra l’altro, che la lettura dei lavori preparatori della l. n. 18 del 2015 conferma questa lettura in chiave di autonomia tra responsabilità civile e accertamento dell’illecito disciplinare. Tuttavia, alla luce dell’impostazione che marca l’autonomia tra giudizio disciplinare - sempre improntato al principio di tipicità degli illeciti - e domanda risarcitoria, sarà necessario risolvere due dubbi, anch’essi da più parti prospettati. 
So che il tema è dibattuto presso gli uffici della Procura generale presso la Corte di Cassazione e ritengo che, nel corso della Seconda sessione di oggi, si potrà far luce su questo tema dalle molteplici implicazioni. In base al principio di autonomia tra il giudizio disciplinare e quello risarcitorio, riterrei che si debba ammettere la promozione dell'azione disciplinare prima che la sentenza contro lo Stato e quella di rivalsa divengano definitive. In secondo luogo, occorre interrogarsi anche sul rapporto reciproco, solo in apparenza meno rilevante, e cioè quello sugli effetti che discendono dal giudizio disciplinare sulle eventuali pretese risarcitorie e sull’attivazione del giudizio di responsabilità civile per la stessa condotta o per il medesimo atto compiuto dal magistrato. 

Un ulteriore cenno merita il tema degli esiti dei giudizi risarcitori, ai fini delle valutazioni di professionalità. È un tema che si può accostare, all’altro - quasi si direbbe classico – del rapporto tra procedimento disciplinare e valutazione di professionalità. Si tratta di un aspetto assai dibattuto, e questo già prima dell’entrata in vigore della disciplina di riforma della legge n. 117 del 1988. Se si colloca il giudizio disciplinare nel corretto alveo del fine di reprimere e sanzionare le condotte patologiche che rientrano nel quadro tipizzato degli illeciti, le competenze del Consiglio in materia di disciplina dei magistrati non saranno sovraccaricate di funzioni implicite ed ultronee che, pure, vengono talvolta impropriamente invocate. Ora, come noto, si è a lungo discusso dell’eventualità di trasmettere al Consiglio anche i decreti di archiviazione adottati dalla Procura Generale. Ciò al fine di consentire al Plenum, in sede di valutazioni di professionalità, di tenerne eventualmente conto nell’ambito di discrezionalità proprio dell’organo di autogoverno. Occorre chiedersi, specie dopo l’espunzione del filtro, se sempre ai fini della valutazione di professionalità, e naturalmente evitando ogni automatismo di sorta, anche gli atti dei procedimenti risarcitori meritino di essere esaminati e presi in considerazione dal Consiglio, al fine di effettuare le suddette valutazioni di professionalità. Mi limito ad accennare al tema, nella consapevolezza che occorrerebbe comunque intendersi su fasi e modalità di trasmissione di tali atti e, soprattutto, evitare che essi assumano, ancora una volta, un indebito valore strumentale. 

Ciò premesso, rinnovo l’impegno già contratto dal Plenum in sede di esame del parere sul disegno di legge allora ancora all’esame delle Camere: il Consiglio Superiore della Magistratura manterrà alta l’attenzione al fine di monitorare e avviare una riflessione sull’applicazione della l. n. 18 del 2015. In particolare, sarà attentamente studiata e scrutinata proprio l’incidenza dispiegata dalle risultanze applicative della riforma sulla giurisprudenza della Sezione disciplinare del Consiglio, nonché sull’evoluzione e la tenuta del sistema di valutazione della professionalità. I due profili cui ho inteso riferirmi costituiscono, del resto, uno spazio lasciato aperto e non disciplinato dal legislatore. Le Camere che non hanno inteso, evidentemente, spingere a fondo l’esercizio della funzione legislativa su questi particolari fronti, anche perché ciò avrebbe lambito profili di innegabile delicatezza e complessità. Specialmente nel primo ambito, quello del rapporto con il giudizio disciplinare, sono certo che l’ordinamento potrà contare sulla Suprema Corte di Cassazione e sulla sua tradizionale ricchezza culturale e saggezza di indirizzi nell’esercitare la funzione nomofilattica e nel preservare il rapporto tra riti, processi e plessi giurisdizionali. 
Ciò non toglie, che al Consiglio compete di vigilare con particolare attenzione e accuratezza sulle due citate questioni che affiancano ed integrano la terza e più vasta; quella, appunto, delle eventuali anomalie applicative della l. n. 18 del 2015 e della lesione dell’autonomia e indipendenza che ne potrebbe conseguire. 

Da ultimo, le considerazioni svolte inducono a domandarsi quanto la riforma stia incidendo sul modello di giudice cui guarda l’ordinamento. Non vi è dubbio che la responsabilità connessa all'attività giurisdizionale va valutata sotto una luce nuova, quella che discende dall'ampliamento e dalla specializzazione delle funzioni giurisdizionali conseguenti alle trasformazioni in atto. Fenomeni assai ampi e complessi, questi ultimi, che chiamano in causa la formazione e l’aggiornamento dei singoli magistrati e gli orientamenti e le scelte del Consiglio Superiore della Magistratura nel tentativo di promuovere e valorizzare il merito nei percorsi di carriera e nelle stesse valutazioni di professionalità. 
Lo scenario che muta pone molteplici interrogativi che certo non possono essere liquidati con un semplicistico atteggiamento di chiusura; al contrario, meritano spazi di riflessione critica e di confronto aperto. E non a caso una delle sessioni di questo Seminario sarà dedicata al tema della “giurisprudenza difensiva”. E se è vero che la modifica del regime della responsabilità civile non può e non deve essere intesa in chiave afflittiva e paralizzante, secondo un’ottica, cioè, di carattere punitivo, occorre anche tener conto degli effetti che la riforma avrà su quel ruolo di supplenza che talvolta la magistratura svolge, anticipando termini e tempi degli interventi legislativi, così che il giudizio processuale diviene sempre più il tramite “attraverso cui comunicano la norma e il fatto”, secondo le parole di Natalino Irti. 
Per contro, margini di accresciuta esposizione alla responsabilità civile del magistrato devono indurre anche il legislatore, così come gli altri poteri dello Stato, a non recedere dai rispettivi ambiti di responsabilità e funzione. In altre parole, è lungo questo crinale che si intuisce come la legge n. 18 del 2015 possa davvero intendersi come una disciplina di valore e portata sistemica. 
Concludo, pertanto, ribadendo l’apprezzamento per l’organizzazione di questo incontro dai cui esiti il Consiglio Superiore potrà trarre sicuro giovamento anche in vista dello sviluppo di quell’attività di monitoraggio sugli effetti della nuova disciplina in tema di responsabilità dei magistrati che continua a rimanere un obiettivo ed un impegno cui l’organo di governo autonomo intende assolvere con puntualità e accuratezza. 

Nell’augurare un’ottima riuscita di questo Seminario, cedo senz’altro la parola al Presidente Piergiorgio Morosini e vi rivolgo i migliori auguri di buon lavoro.